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17 Set 2015

Merci importate introdotte in un deposito fiscale: il reverse charge ''annulla'' l’IVA

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Inversione contabile e IVA: come comportarsi.

 

In tema di IVA sulle importazioni, in applicazione della sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 luglio 2014 nella causa C-272/13 (sentenza Equoland), la normativa nazionale può subordinare la concessione dell’esenzione alla condizione che le merci importate e destinate ad un deposito fiscale vi siano fisicamente introdotte ma, in ossequio al principio di neutralità fiscale, non può imporre il pagamento dell’imposta ove la medesima sia già stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile o reverse charge.

L’IVA sulle importazioni di merci fisicamente introdotte in un deposito fiscale non può essere richiesta se già regolarizzata nell’ambito del meccanismo del reverse charge. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17815 del 2015.
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra l’Agenzia delle Dogane ed una S.r.l.
La S.r.l. ha proposto ricorso innanzi alla CTP contro 11 avvisi di rettifica emessi dalla Dogana per la ripresa a tassazione dell'IVA che la società aveva omesso di versare, ancorché non avesse provveduto alla materiale immissione della merce deposito IVA di altra società.
La CTP respingeva il ricorso con sentenza impugnata dalla contribuente innanzi alla CTR.
Quest'ultima confermava la sentenza impugnata.
Secondo la CTR la pretesa fiscale era immune da vizi, risultando che la merce non era stata introdotta nel deposito, legittimando la ripresa a tassazione nei confronti dell'importatore e del depositario responsabile per la falsa dichiarazione in dogana.
L'obbligo di corrispondere il tributo dovuto in ragione del mancato immagazzinamento della merce non veniva meno per effetto dell'estrazione della merce dal magazzino con il sistema del c.d. reverse charge che non comportava alcun versamento e non poteva sostituirsi alla riscossione dell'IVA all'importazione che doveva essere comunque assolta alla stregua degli altri diritti di confine.
Peraltro, gli atti in contestazione erano ben corredati da esaustive argomentazioni.
Contro la sentenza proponeva ricorso la società contribuente, in particolare sostenendo che la CTR non aveva fatto corretta applicazione della disciplina normativa introdotta dalla legge (art. 50-bis, D.L. n. 331/1993) dalle quali risultava che il beneficio del mancato pagamento dell'IVA era collegato non già all'effettiva e materiale inserimento della merce nel deposito fiscale IVA, ma alla semplice realizzazione di prestazioni di servizi negli spazi limitrofi al deposito, dovendosi ritenere il tributo assolto con l'estrazione della merce, non essendo necessario né l'effettiva introduzione nel magazzino, né lo scarico delle merci dall'automezzo di trasporto né tanto meno un tempo minimo di permanenza nei locali adibiti a deposito.
Ciò determinava il superamento dei principi fissati in precedenza dalla Cassazione con numerose decisioni.
Doveva pertanto ritenersi che l'IVA fosse da ritenere assolta per effetto dell'emissione dell'autofatturazione che rappresentava un mezzo estintivo del debito IVA.
La Cassazione ha accolto il ricorso della società contribuente, affermando un principio non presente nella giurisprudenza della Corte.
Orbene, sul punto, osservano gli Ermellini che in punto di fatto, risultava pacifico che la società importatrice si è avvalsa in modo virtuale del deposito fiscale ai fini IVA, in relazione alla immissione in libera pratica di merci importate da paesi extra UE.
Risultava ancora incontroverso che l'IVA veniva successivamente assolta dall'importatore all'atto dell'estrazione della merce dal magazzino IVA in regime di reverse charge, con emissione di autofatture, avendo l'Agenzia unicamente contestato la rilevanza di tale meccanismo nella fattispecie.
In sostanza, l'Agenzia delle dogane sosteneva che non poteva ipotizzarsi la possibilità di ritenere assolta l'IVA all'importazione con il meccanismo della c.d. autofatturazione relativo all'IVA interna.
Ciò perché la normativa sopravvenuta avesse eliminato l'obbligatorietà dell'immissione effettiva della merce in deposito.
I Supremi Giudici, dopo aver ricordato l’orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, osservano come la questione dell'applicazione del regime di cui all'art. 50-bis, comma 4, lettera b), D.L. n. 331/1993 alle ipotesi di immissione di beni extra UE in libera pratica senza la materiale introduzione della merce nel deposito fiscale, debba oggi tener conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia e, segnatamente, della sentenza Equoland del 2014, in particolare con riferimento alle ricadute prodotte dall'assolvimento dell'IVA con il sistema dell'autofatturazione che l'importatore e/o il titolare del deposito svolgono dopo il passaggio virtuale in deposito all'atto dell'estrazione dei beni, essendo la Corte europea giunta a conclusioni opposte a quelle espresse dalla Corte di Cassazione italiana e richiamate nel principio di diritto di cui in massima.
Si noti, inoltre, che l'Agenzia delle dogane, all'esito di un incontro con l'Avvocatura Generale dello Stato, nel diramare le istruzioni per uniformarsi alla sentenza Equoland rispetto al contenzioso pendente che presentava caratteri sovrapponibili a quello deciso nella causa anzidetta, ha adottato la circolare n. 16D del 20 ottobre 2014 ed invitato i singoli uffici ad operare in sede di autotutela al fine annullare, laddove non ricorra l'ipotesi di frode, gli atti di revisione relativi alla pretesa dell'IVA all'importazione gravante sui beni non introdotti fiscalmente nel deposito IVA ma ivi contabilmente registrati a cura del depositario per i quali l'IVA è stata assolta col meccanismo dell'autofatturazione.
La stessa Agenzia ha disposto di abbandonare i giudizi che presentano identici elementi in fatto e in diritto rispetto a quelli del caso Equoland.
Sulla stessa linea si è posta la circolare n. 12E del 24 marzo 2015, adottata dall'Agenzia delle Entrate.
Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso. Leggi tutta la notizia

 
 
 
Fonte: IPSOA
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