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09 Feb 2016

Digitale e logistica: produrre tessuti in Italia si può

ALBINI GROUP

 

La Albini è l’esempio di come il tessile italiano abbia rialzato la testa.

 

BERGAMO - Ha remato contro corrente per decenni il gruppo Albini. Mentre i concorrenti delocalizzavano le manifatture tessili all’estero, Albini ha continuato a investire in Italia. Gli ultimi sono stati i 27 milioni spesi tra il 2012 e il 2014 per sostituire tutti i telai e diventare il maggior produttore europeo di tessuti per camiceria. Oggi, cinque degli otto stabilimenti si trovano tra Bergamo e Taranto e tre quarti dei 1.300 dipendenti sono italiani. La Albini è l’esempio di come il tessile italiano abbia rialzato la testa.

 

«I clienti delle fasce medie e alte, oltre a quelli del lusso, stanno diventando sempre più esigenti sul fronte della tracciabilità. La certezza della provenienza, la possibilità di ripercorrere e certificare l’intera filiera produttiva sono diventati punti chiave del successo di un’azienda. Così, chi è rimasto a produrre tessuti in Italia, sta vivendo un momento di buoni profitti», racconta Silvio Albini, 59 anni, presidente del cotonificio, che quest’anno compie 140 anni di storia ed è giunto alla quinta generazione. Per restare in Italia la società ha cambiato pelle, spogliandosi dell’immagine di un settore vecchio e obsoleto, e dotandosi di processi innovativi dinamici: «Ci siamo riposizionati su fasce più alte del mercato, abbiamo imparato a produrre su partite più corte e a commerciare a livello internazionale», al punto che il 68% dei tessuti made in Italy finisce in 83 paesi e, attraverso l’e-commerce, un ordine può essere evaso in 48 ore.

 

Proprio per sostenere il rafforzamento qualitativo, il gruppo è entrato nel progetto Elite di Borsa Italiana: «Ci permette di apprendere una strategia per crescere ancora. Non abbiamo in mente una quotazione e neppure l’ingresso di un private equity, ma sono porte che restano aperte, guardando al futuro», continua l’imprenditore che siede in un consiglio di amministrazione composto da 13 azionisti, tutti legati alla famiglia, di cui 4 operativi in azienda: il cugino Fabio e i fratelli Andrea e Stefano Albini. La sesta generazione non è ancora operativa, «ma l’obiettivo è lasciarle una realtà industriale sana, mantenendo un buon livello di patrimonializzazione e favorendo una visione industriale a lungo termine, anziché una programmazione finanziaria a breve», racconta Silvio Albini, che in passato è stato vicepresidente di Confindustria Bergamo, è presidente uscente di Milano Unica, la manifestazione internazionale del tessile, e siede nel consiglio di amministrazione della Banca Commercio e Industria di Ubi Banca.

 

Nonostante il bilancio del 2015 non sia stato ancora pubblicato, l’imprenditore racconta che il fatturato dovrebbe aggirarsi attorno ai 146,5 milioni, in crescita del 2,2% sul 2014, anno che aveva registrato un più 11%. «Da un lato l’aumento del dollaro ci ha colpito, perché compriamo la maggior parte delle materie prime in quella valuta, dall’altro abbiamo aumentato le vendite oltre Oceano, compensando la frenata del mercato cinese. Ci hanno dato soddisfazioni anche gli altri mercati maturi, come l’Europa e il Giappone», mentre dal 2016 l’imprenditore si attende stabilità e punta a valorizzare il prodotto, la comunicazione, affinare i sistemi informativi, ma soprattutto a investire sul marketing per spingere sui cinque brand del gruppo: “Cotonificio Albini 1876”, “Albiate 1830”, “Thomas Mason 1796” e “David and John Anderson 1822” (storici marchi inglesi acquisiti insieme ad un vasto archivio di tessuti dal diciottesimo secolo in poi) e “Albini, Donna 2012”. Leggi tutta la notizia

 

Fonte: LA REPUBBLICA

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