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11 Gen 2016

Effetto bomba - Fare affari con la Corea del nord

AFFARI_CON_COREA_DEL_NORD

 

Un paese imprevedibile.

 

Gli italiani che lavorano con la Corea del nord raccontano cosa significa fare affari nel paese più isolato e imprevedibile al mondo

 

Succede ogni volta che scoppia una crisi internazionale, ogni volta che Kim Jong-un la spara grossa, oppure ci sono tensioni al confine. In pratica ogni volta che la Corea del nord torna nei titoli delle prime pagine dei giornali: per i due tre giorni successivi, dal paese più isolato e imprevedibile del pianeta, cessano le comunicazioni con il mondo esterno. Poi, gradualmente, la vita riprende. E il business, naturalmente, pure. I sudcoreani sono talmente abituati a questa ciclicità che difficilmente, per strada a Seul, si trova qualcuno realmente preoccupato per le minacce nordcoreane. Ma c’è un manipolo di italiani che lavora in Corea del nord da anni, nonostante i test nucleari e la narrazione terrorizzante, aziende italiane che contribuiscono alla buona reputazione di cui l’Italia gode a Pyongyang. Secondo i dati dell’Italian trade agency, tra il gennaio e il settembre del 2015 il volume dell’esportazione dall’Italia verso la Corea del nord è stato di 605 mila euro, in calo rispetto allo stesso periodo del 2014 del 10,6 per cento (in aumento è solo il settore delle “apparecchiature e macchinari”, passate in un anno da 76 mila a 222 mila euro). Esportiamo soprattutto prodotti alimentari, farmaceutici e di abbigliamento. Sempre tra il gennaio e il settembre del 2015 la Corea del nord ha esportato in Italia un totale di 276 mila euro di prodotti, di cui 55 mila euro di “prodotti chimici” e ben 172 mila euro di industria manifatturiera. L’interscambio commerciale è pressoché irrilevante, secondo i dati dell’Ita, eppure c’è.

 

Come prima risposta al test nucleare rivendicato il 6 gennaio scorso dalla Corea del nord, la Corea del sud ha riattivato gli altoparlanti di propaganda. Le due Coree, tecnicamente ancora in guerra per via di un armistizio firmato nel 1953 ma mai trasformato in accordo di pace, fanno della propaganda un’arma, esattamente come lo era cinquant’anni fa nelle zone dello scontro tra blocco occidentale e sovietico. La propaganda del Sud – che non si limita alla diffusione sul confine ma prevede anche messaggi confidenziali sui cellulari dei nordcoreani che abitano nella capitale Pyongyang – consiste nel dare ai cittadini del Nord un’immagine del mondo occidentale: si trasmettono canzoni che parlano anche di amore, sesso e danaro (il K-pop coreano), si infondono messaggi di libertà e di benessere subordinati a una riunificazione dei due paesi. Bruce Bennett, analista del think tank Rand Corp. e autore di uno dei più famosi saggi sulle conseguenze della riunificazione delle Coree (non proprio un pranzo di gala) spiegava ieri su Twitter che gli altoparlanti diffondono entro dodici chilometri all’interno della Corea del nord, nelle aree per lo più abitate dalle famiglie dei militari che presidiano i confini. Spiega Bennett che la propaganda colpisce duramente l’unica cosa che tiene in piedi ancora un paese come la Corea del nord: la fedeltà al leader, una figura alla quale si dedica religiosamente la propria vita.

 

Quasi venticinque milioni di persone abitano in Corea del nord, l’ultimo pezzo della Guerra fredda, come definì il paese nel 1997 l’ex presidente americano Bill Clinton. Venticinque milioni di persone che vivono in uno stato di isolamento e secondo i princìpi del Juche – un’ideologia nazionale complessa, che riguarda la fondamentale importanza all’esercito, l’autonomia nella difesa e l’autosufficienza economica – sin dal 1948, da quando cioè i sovietici decisero di far governare la neonata Repubblica popolare di Corea (Dprk) a Kim Il-sung, il Presidente eterno. Oltre alla minaccia internazionale che periodicamente fa tornare il giovane leader Kim Jong-un – che ieri ha compiuto trentatrè anni – sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, quei venticinque milioni di nordcoreani vivono, o meglio, sopravvivono. Lo fanno nonostante i continui richiami delle Nazioni unite al governo di Pyongyang per le gravi violazioni dei diritti umani, la censura della libertà d’espressione, i prigionieri politici, i campi di lavoro, le frequenti carestie. L’economia nordcoreana viaggia ormai quasi istituzionalmente su due livelli: il primo, quello ufficiale e controllato dal governo; il secondo livello è quello del mercato nero, condizionato soprattutto dai legami con la Cina.

 

Fu l’allora ministro degli Esteri Lamberto Dini, nel 2000, a ristabilire le relazioni diplomatiche con la Corea del nord. L’Italia era la prima tra i membri del G7 a tentare la via del dialogo e Dini andò a Pyongyang, in una celebre visita nel marzo dello stesso anno. La rappresentanza nordcoreana alla Fao di Roma divenne un’ambasciata. Addirittura nel 2008 a Como ci fu un incontro tra viceministri degli Esteri delle due Coree. Sembrerà una follia, ma la dinastia dei Kim guarda con amicizia a Roma anche per la fondamentale presenza del Partito comunista nella storia politica italiana. Naturalmente, nel corso degli anni, la collaborazione diplomatica ed economica tra Italia e Corea del nord è andata raffreddandosi. La Farnesina si occupa ancora di vari progetti umanitari e collabora con gli organismi internazionali per gli aiuti alimentari alla popolazione. Attualmente è attivo un progetto di cooperazione per il "miglioramento dei sistemi agricoli tradizionali per contribuire alla sicurezza alimentare della Provincia del Kangwon”. La Corea del nord, però, resta un paese estremamente isolato e colpito dalle sanzioni economiche sin dal primo test nucleare del 1993.

 

Laura Galassi è l’amministratrice della Sa.Ges.Sam., un’azienda di Pesaro che si occupa di servizi alle imprese agricole e di smaltimento di rifiuti industriali. Il padre di Galassi lavora con la Corea del nord da almeno quindici anni, fornendo agli allevatori nordcoreani i macchinari per l’allevamento di suini, oche e polli. “Poi, nel 2008, il governo ci ha chiesto di aprire un ristorante italiano a Pyongyang, il primo in assoluto”, spiega al Foglio Laura Galassi, “abbiamo costituito con la controparte nordcoreana una joint venture che si chiama CorItalia, e abbiamo iniziato questa avventura”. Uno scambio culturale a tutti gli effetti: il logo di CorItalia, per esempio, è stato disegnato da un architetto nordcoreano che ha studiato a Roma – per ogni ciclo universitario, Pyongyang manda dieci studenti a completare gli studi a Valle Giulia. I pizzaioli del ristorante di CorItalia hanno imparato a fare la pizza a Pesaro. Ma quando uno vuole aprire un ristorante italiano nel paese più isolato del mondo, il primo problema, naturalmente, sono le materie prime: “Abbiamo portato a Pyongyang tutto quello che ci serviva: farina, pelati, prosciutto. Serviamo soprattutto pizza, che è facile da fare con pochi ingredienti, ma anche qualche tipo di pasta e alcuni piatti coreani. Nel ristorante perfino l’arredamento è completamente italiano”. Come spesso si usa in Corea del nord, al piano sottostante c’è uno showroom dove si possono acquistare prodotti italiani: “Dovevamo capire cosa potesse piacere ai nordcoreani, ma vendiamo molti prodotti alimentari come caffè, biscotti, cioccolato. E devo dire qualcosa si sta diffondendo, ma bisogna sempre prima comprenderne la cultura. Per esempio, sull’abbigliamento, all’inizio abbiamo sbagliato: cercavamo di vendere le scarpe che piacevano a noi, ma che non erano adatte alla vita a Pyongyang. Inoltre i coreani hanno i piedi molto piccoli ed era difficile trovare le calzature della misura giusta”. Ma chi è che va a mangiare in un ristorante italiano a Pyongyang? “All’inizio la clientela era solo internazionale: delegazioni diplomatiche, ufficiali”, dice Galassi. Poi man mano abbiamo visto il ristorante riempirsi anche di cittadini”. Nell’agosto del 2013 su tutti i giornali internazionali uscì la notizia che la Coca-Cola era sbarcata in Corea del nord. Ne era prova un video girato in un ristorante italiano di Pyongyang dove si vedevano chiaramente delle lattine di Coca sui tavoli. La Coca-Cola negò l’ingresso nel mercato, ma non era esattamente così: “Sì, eravamo stati noi a portare le lattine di Coca-Cola al ristorante. Avevamo bisogno di capire quali fossero i gusti dei nostri clienti, e devo dire che apprezzarono la novità”. Ma niente di illegale: tutti i container che vanno e vengono dalla Corea del nord sono controllati, soprattutto prima di lasciare l’Italia. Perché non è facile fare affari con un paese il cui import è limitato dall’embargo sui beni di lusso: “In Europa ogni paese ha la sua lista di prodotti considerati ‘di lusso’. Per esempio per noi il vino di qualità è un prodotto di lusso, e infatti riusciamo a portare a Pyongyang solo quello che in Italia viene considerato ‘da cucina’. Per gli alcolici vale lo stesso discorso, e anche per i prodotti per il make-up. Ma per la Francia il discorso è diverso, loro hanno una fascia di vini esportabili e anche il make-up non è ‘bene di lusso’”. Galassi, che visita la Corea del nord circa una volta l’anno, ci spiega che la sua azienda guadagna ben poco dal ristorante, ma l’attività è comunque positiva: “Ci sono dei problemi di comunicazione, in giorni complicati come questi, per esempio. Internet non è diffuso nel paese e parlare al telefono è difficile. Ma tutto sommato è una bella esperienza”.

 

Fare joint venture in Corea del nord è ancora molto complicato. Ne è esempio la vicenda della società egiziana di telecomunicazioni Orascom, che nel 2008 aveva fondato una joint venture con la Corea del nord chiamata Koryolink. Come ha spiegato su Al Jazeera Andrei Lankov, professore dell’Università Kookmin di Seul e uno dei massimi esperti di affari nordcoreani, in pochi anni la joint venture di Orascom ha raggiunto tre milioni di abbonamenti in Corea del nord, grazie all’economia in crescita nell’ultimo decennio. Il fatto è che quando Orascom ha chiesto a Pyongyang di cominciare a rimandare in Egitto parte dei profitti, la controparte (ovvero il governo di Pyongyang) ha detto che la joint venture avrebbe dovuto reinvestire tutti i profitti in loco. Tre mesi fa, Orascom ha annunciato di aver abbandonato il progetto Koryolink. “Noi siamo al cento per cento un’azienda straniera che lavora in Corea del nord”, dice al Foglio Mario Carniglia, presidente del consiglio di amministrazione di Otim, che sta per Organizzazione trasporti internazionali e marittimi. Carniglia è un pioniere degli scambi commerciali asiatici, sin dagli anni Settanta quando la Otim arrivò in Cina: “Allora sembrava di sbarcare in un altro pianeta”. E mentre la Cina nel frattempo cambiava, avete deciso di spostarvi anche in Corea del nord: “Era l’ottobre del 2000, quando io con il mio socio Enzo Ragazzi siamo andati a prendere accordi con l’ufficio di rappresentanza di Pyongyang”, quello aperto proprio da Lamberto Dini. “Inizialmente abbiamo curato spedizioni di esportatori e importatori locali – in pratica del governo – e poi abbiamo iniziato anche a lavorare sulle forniture e gli aiuti delle organizzazioni internazionali. Il grosso del commercio, naturalmente, è tra la Cina e la Corea, l’idea all’inizio era far lavorare gli uffici dell’estremo oriente – la Cina è un paese che supporta e sopporta Pyongyang, e tra Taiwan e la Corea del nord c’è molto scambio. Però facciamo anche trasporti dall’Europa. Abbiamo portato perfino un container di aiuti alimentari dagli Stati Uniti nel 2014”. Carniglia va in Corea del nord a curare gli affari almeno una volta l’anno: “Adesso naturalmente ci sarà un irrigidimento per via del test nucleare, ogni tanto c’è qualche evento che ‘sospende’ i rapporti, poi però nel giro di poco tutto ricomincia”. Ma i controlli ai vostri trasporti? “In questo momento se ci fosse un trasporto alimentare non ci sarebbero problemi. C’è da dire però che negli ultimi anni i cinesi sono molto più attenti a tutto quello che passa dal porto di Dalian, dove transita tutto ciò che va in Corea del nord. Da 3-4 anni si sono intensificati i controlli sulle merci, se qualcosa è sospetto viene perquisito, soprattutto se si tratta di materiali che potrebbero essere usati per l’industria bellica”. La Otim, che grazie al rapporto di fiducia con il governo coreano è mediatore anche per il rilascio di visti turistici, da parecchi anni partecipa all’annuale fiera del commercio nordcoreana con uno stand. In un articolo di NkNews dalla fiera del 2015, la Otim viene descritta come “una strana azienda con uno stand che mostra poche immagini di Italia e Corea”. Carniglia ride: “E che dobbiamo esporre? Siamo un’azienda che fa trasporti, avevamo messo un video con delle immagini dei nostri container e alcuni depliant”. Spesso in Corea del nord è difficile distinguere la verità dalla suggestione, dal mito. Alla fiera del commercio del 2014, per esempio, secondo la Kcna, l’agenzia di stampa nordcoreana, c’era un’azienda italiana: “UNAFORTE, diretta dal signor Willam Zaho”. Dopo una breve ricerca sull’azienda, si deduce che la UNAFORTE in realtà è una compagnia cinese che commercia con gioielli “originali dall’Italia”.

 

La Legea, azienda italiana con sede a Pompei, ha avuto un contratto di sponsorizzazione con la Federazione di calcio nordcoreana per quattro anni, dal 2010 al 2014. Per quattro anni ha fornito ai calciatori tutto il necessario per allenarsi. Ma com’è successo che un’azienda di Pompei è finita con lo sponsorizzare uno “stato canaglia”? Lorenzo Grimaldi, responsabile del marketing estero della Legea, spiega al Foglio che “tutte le aziende che operano in questo settore, in prossimità dei Mondiali di calcio, cercano una squadra per aumentare la propria visibilità. La Corea del nord era in cerca di uno sponsor tecnico, e per motivi politici non riusciva a trovarlo. Mancava poco ai Mondiali in Sudafrica e un’agenzia di comunicazione svizzera, che cura l’immagine della Federazione nordcoreana, ci ha contattati”. E com’è stato lavorare con loro? “Si sono lasciati guidare, gli abbiamo consigliato i prodotti, non erano particolarmente ossessivi nelle richieste, magari c’era un problema di comunicazione perché solo un loro referente parlava inglese, ma si muovevano con una certa libertà in Europa”, dice Grimaldi. E a voi ha fatto bene sponsorizzare la nazionale nordcoreana? “Scherza? Moltissimo, abbiamo avuto un riscontro enorme in termini pubblicitari. La fortuna ha voluto che la Corea del nord abbia giocato la prima partita con il Brasile, e tutti sanno che le partite più viste di un Mondiale sono la prima e l’ultima”. Business is business. E pare che quando si tratti di divertimento Pyongyang si rivolga spesso all’Italia: “L’ambasciata della Corea del nord a Roma ci ha mandato una email nel 2009 dicendo che erano interessati ai nostri prodotti”, dice al Foglio Tullio Faccin, direttore commerciale della Zamperla Spa, una delle aziende produttrici di giostre meccaniche più famose al mondo. “Erano già anni che io lavoravo con l’Asia, ed ero particolarmente incuriosito dalla Corea del nord. Per questo il pomeriggio stesso i nostri progetti erano sul tavolo dell’attaché commerciale dell’ambasciata”. E’ stata una trattativa con dei clienti efficientissimi e con soldi da spendere, spiega Faccin: “Sono stato a Pyongyang tre volte, e la prima sorpresa è stata appena arrivato, quando ho capito che non dovevamo creare un parco divertimenti da zero, ma rinnovarne uno già esistente”. E com’era? “Era un parco vecchiotto, con vecchie macchine giapponesi anni 70-80 quasi completamente in disuso. Noi l’abbiamo rinnovato con una prima partita con macchine tutte molto importanti, il top della gamma. Non è stato difficile perché era un parco centrale, senza tematizzazioni. Poco dopo ci hanno chiesto di farne un altro, sull’isola dentro al fiume che bagna Pyongyang – in linea d’aria sarà nemmeno un chilometro dall’altro. Il secondo è un parco più attrezzato, con più macchine e lì abbiamo fatto anche un parco acquatico”. Ma che effetto le fa, vedere Kim Jong-un terrorizzare mezzo mondo e poi vederlo inaugurare il parco seduto sulle sue giostre, mano nella mano con sua moglie? “Le racconto quello che ho visto quando sono stato lì. Il giorno che abbiamo dovuto provare le macchine per la prima volta, c’erano dei ragazzi dell’esercito che sono saliti per primi. Ridevano di gusto, e il clima era ilare e festoso. Alla fine il nostro business è questo, vendiamo felicità e sorrisi”. Leggi tutta la notizia

 

 

Fonte: IL FOGLIO

 

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